mercoledì 29 giugno 2016

Crisi dei migranti: gli effetti dell'accordo tra Ue e Turchia

Crisi dei migranti: gli effetti dell'accordo tra Ue e Turchia



La famigerata “rotta balcanica” che ha immobilizzato e diviso mezza Europa negli ultimi mesi, a causa dell’arrivo in massa di migliaia di migranti provenienti in prevalenza da Siria, Iraq, Afghanistan, Eritrea e Somalia, attraverso il Mar Egeo, sembrerebbe essersi notevolmente attenuata. Il risultato di questo calo deriverebbe dall'accordo raggiunto il 18 Marzo 2016 tra Unione Europea e Turchia volto ad arrestare l’esodo di massa proveniente dalla fascia mediorientale e a combattere il traffico clandestino di esseri umani.[1]

Il piano, discusso a Bruxelles, prevede che tutti i migranti che approdano in Grecia dalla Turchia debbano essere respinti. Tuttavia, la clausola chiave inserita nell'accordo denominata “one in, one out” che si applica ai soli migranti siriani prevede che per ogni siriano rimandato in Turchia,  uno già presente nel paese venga accolto in Europa. Così facendo si bilanciano i costi di accoglienza che la Turchia deve sostenere nell'ospitare il grande numero di profughi ad oggi presente, circa 2,7 milioni per la maggior parte siriani. In compenso l’Unione Europea può “scegliere” i rifugiati siriani da accogliere in Europa. Per consentire alla Turchia di fungere da campo profughi dell'Ue, quest’ultima elargisce ad Ankara un fondo di 3 miliardi di euro e si impegna a corrispondere altri 3 miliardi entro la fine del 2018, se la prima tranche si rivelasse insufficiente. L’accordo prevede infine che l’Unione Europea si impegna ad accelerare l’iter che dovrebbe consentire entro l’estate 2016, di esentare i cittadini turchi dal requisito del visto per accedere allo spazio Schengen.

In termini economici, anche se può sembrare un ingente somma, i sei miliardi promessi alla Turchia inciderebbero per l’1% nell'intero bilancio europeo che ammonterebbe a circa 145 miliardi di euro nel 2015. In base alle regole contabili europee l’erogazione dei fondi sarebbe vincolata alla verifica del modo in cui la Turchia li spende. Tuttavia il meccanismo di rimpatrio previsto dall'accordo configura un cavillo giuridico e logistico non indifferente. In primo luogo, i sistemi d’asilo dei paesi europei e la convenzione di Ginevra del 1951 ( cui l'Ue aderisce ) vietano espressamente di rispedire i richiedenti asilo in Stati che non garantiscano loro adeguata protezione, assistenza e prospettive d’integrazione, ovvero che non abbiano riconosciuto lo status di “paese sicuro”. Questo non pare il caso della Turchia: paese che applica solo in minima parte la convenzione di Ginevra e che accorda ai 2,5 milioni di siriani presenti oggi nel suo territorio uno status di mera “protezione temporanea”. Posto che si siano previamente registrati presso le autorità turche, il che non avviene per la quasi totalità di quelli che puntano all'Europa e che dalla Grecia si vedono ora rimandati indietro.

Le regole vengono in questo modo cambiate. La Grecia è dunque chiamata a riconoscere la Turchia come “paese terzo sicuro”, per poter effettuare i respingimenti in modo formalmente legale. Purché i migranti respinti siano preventivamente registrati in Grecia, vagliandone singolarmente le domande d’asilo, in quanto l'Ue vieta espressamente le espulsioni di massa. Ad oggi, oltre alla Grecia, la sola Bulgaria aveva riconosciuto la Turchia come “paese terzo sicuro”. In questo modo, tutto il meccanismo finisce per dipendere dal sistema di asilo greco, che un rapporto della Corte Europea dei diritti dell’uomo descrive come “inaccettabile, degradante e malsano”.[2] Gli hotspots posti nelle isole prospicienti la Turchia ( Lesbo, Chio, Samo, Lero e Coo ) non sono sufficienti a fronte delle ingenti richieste d’asilo e mancano ancora di sufficiente personale specializzato ( avvocati, poliziotti, magistrati ed interpreti). A fronte di ciò l’Unione Europea ha promesso alla Grecia circa 700 milioni di euro di aiuti. C’è inoltre da aspettarsi che molti richiedenti asilo si oppongano alla prospettiva di essere rimandati indietro, dopo aver investito gran parte dei loro averi e le loro stesse vite nel viaggio della speranza per sfuggire fame, violenza e distruzione. E’ auspicabile che vengano prese in considerazione altre rotte, come quella adriatica, che dall'Albania porta alle nostre coste pugliesi.

La proposta di ricollocamento dei richiedenti asilo presenti in Grecia è stata rigettata dal primo ministro ungherese Viktor Orban.[3] Ancora più problematico è il destino dei circa 200 mila profughi non siriani presenti in Turchia e a cui il paese non riconosce alcuna forma di protezione, e che al momento Ankara non saprebbe dove mandare. La Turchia infatti ha avviato procedure di accordi bilaterali di rimpatrio con 14 paesi, tra cui Iran, Afghanistan ed Eritrea, ma il processo è ancora lungo. Qualora la Turchia decidesse di rimpatriare in massa persone che nei loro paesi di provenienza rischiano la vita, violerebbe il principio europeo e internazionale del non refoulement ( non respingimento ), mettendo a rischio lo status di “paese terzo sicuro”. Anche per i siriani ripresi dalla Turchia la situazione non è affatto facile. L’unica opzione è la ricollocazione in Europa, che al momento sembrerebbe difficoltosa date le divisioni presenti tra gli Stati Membri e la regola dell’unanimità nel processo decisionale in materia d’immigrazione. In assenza di una ripartizione dei richiedenti asilo su scala europea, la Grecia finirebbe infatti per recepire un numero di profughi siriani analogo a quelli respinti, di fatto vanificando l’accordo con la Turchia. Sarà utile a riguardo seguire gli sviluppi della proposta italiana del cosiddetto “Migration Compact” che riguarderà anche la ripartizione dei profughi siriani “scelti” in Turchia.

La clausola one-in, one out è tuttavia una regola temporanea, ma il suo superamento richiede la creazione di un sistema di ripartizione europeo a lungo termine. Questo accordo ha fatto dunque entrare le relazioni tra Turchia e Unione Europea in una nuova dimensione. Paradossalmente, proprio nel momento storico in cui i rapporti tra i due attori non erano dei migliori. Facendo leva sul terrore degli europei per i disperati in fuga da guerre alle quali non sono esattamente estranei ( la maggioranza dei rifugiati siriani non scappa dallo Stato Islamico, ma dalla barbarie senza limiti del regime di al-Asad, alleato non dichiarato dell’Occidente )[4], Erdogan e Davutoglu sono riusciti a incunearsi nelle fratture del Vecchio Continente portando a casa un buon risultato in termini di aiuti economici e riapertura del dialogo di pre-accesso all'Unione Europea. I due leader percepiscono di essere indispensabili all'Europa per arginare il flusso di migranti, i quali potrebbero essere tranquillamente integrati in Turchia, paese in piena crisi demografica, accalcati ai confini con la Siria. E’auspicabile che la Turchia richieda in futuro ulteriori aiuti economici per integrare i siriani nel proprio mercato del lavoro.

Al momento i siriani presenti in Turchia vivono in un “limbo giuridico” dato il fatto che non godono dello status di rifugiati ma di “ospiti”. Sono infatti presenti numerose situazioni di sfruttamento in particolare nelle fabbriche tessili turche in cui lavorano anche minori siriani senza alcuna protezione giuridica. A livello strategico, l’accordo Ue-Turchia consolida le relazioni turco - tedesche. La cancelliera Angela Merkel, oltre a prendere le difese della Turchia in Europa è stata l’unico leader occidentale ad appoggiare apertamente la proposta turca di creare una zona di sicurezza nel Nord della Siria[5]. Proposta che provoca non poche tensioni al confine. È di pochi giorni fa la notizia di 8 profughi siriani uccisi tra cui 4 bambini, da parte delle guardie di frontiera turche, che hanno reagito al tentativo dei profughi di oltrepassare il confine senza fermarsi all'alt dei militari. L’osservatorio per i diritti umani in Siria registra 60 civili siriani uccisi al confine turco dall'inizio del 2016.[6] Per concludere, la situazione che contorna quest’accordo è ancora molto da definire, e sarà utile capire gli sviluppi di nuove proposte europee sulle politiche d’immigrazione, volte non a fungere da tampone ma da poter essere sviluppate e armonizzate nel lungo periodo.
Danilo Lo Coco


[1] EU – Turkey Statement, 18 March 2016, Press office, General Secretariat of the Council.
[2] 2011 Annual Report on the Situation of Asylum in the European Union, European Asylum Support Office, 2012
[3] Migrant crisis: EU and Turkey plan one-in, one out deal, BBC News, 8/03/2016
[4] K. Suleiman, M. Misto, “ Anadolu Agency tally shows 361,000 killed in Syria war, Anadolu Agency, 15/3/2016
[5] Santoro, D., “Ad Ankara piace l’Europa à la carte”, in Limes n.3 “ Bruxelles, il fantasma dell’Europa”, 3/2016
[6] Turkey border guards ‘shot Syrian children’-monitors, BBC news, Middle East, 19/6/2016

lunedì 27 giugno 2016

No Brexit per i "lealisti" britannici della Commissione europea

No Brexit per i "lealisti" britannici della Commissione europea


"I britannici hanno deciso che volevano lasciare l'Unione europea. Non ha senso aspettare fino a ottobre per cercare di negoziare i termini della sua partenza," ha detto Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, durante un’intervista. 

Tuttavia, tra le innumerevoli conseguenze del referendum di giovedì, c’è molta preoccupazione per una questione che non ha precisamente una connotazione politico-economica, ma sociale. Che ne sarà dei funzionari europei della Commissione? La Commissione europea, composta da 28 direzioni generali (DG), è un organo esecutivo, e ha il monopolio del potere di iniziativa legislativa. Essa è composta da commissari i quali, nell’esercizio delle loro funzioni, non sono legati da alcun titolo di rappresentanza con lo Stato da cui provengono, in quanto i commissari devono agire nell'interesse generale dell'Unione, secondo l’articolo 17 del TUE. La stessa regola vale per i funzionari della Commissione europea. I funzionari della Commissione svolgono svariati compiti, suddivisi in tre principali gruppi di funzioni: amministratori (AD), assistenti (AST) e segretari/commessi (AST/SC). In qualità di amministratori si possono svolgere ruoli nelle procedure legislative e di bilancio dell’UE, ad esempio coordinando le politiche economiche generali degli Stati membri, partecipando a negoziati con paesi terzi, contribuendo alla gestione della politica agricola comune o garantendo l’interpretazione uniforme e l’effettiva applicazione del diritto comunitario. Gli assistenti invece svolgono un ruolo importante nella gestione interna della Commissione, in particolare per quanto riguarda le questioni di bilancio e finanziarie, le attività nel settore del personale, i servizi informatici e di documentazione, e l’attuazione di politiche in vari settori di attività dell’UE. Infine i segretari/commessi sono chiamati a svolgere mansioni di segreteria o di ufficio e a garantire l’efficienza operativa di un’unità amministrativa. 

All'indomani del referendum, sono stati forniti i numeri dei funzionari britannici che lavorano nelle 28 DG della Commissione: circa 2000, senza contare quelli che lavorano al Parlamento europeo, al Consiglio e nelle altre istituzioni secondarie. Il grande quesito è legato alla preoccupazione sul futuro di questi funzionari, che in quanto tali, ormai hanno residenza e domicilio a Bruxelles, a Strasburgo e a Lussemburgo. Con le modifiche allo Statuto dei funzionari delle istituzioni europee entrate in vigore il 1° gennaio 2014 tutti dipendenti delle Istituzioni comunitarie, incluso quelli della Commissione, lavorano un minimo di 40 ore alla settimana e dispongono di almeno 24 giorni di ferie all'anno. Gli stipendi base sono compresi tra i 2.300€ al mese per un dipendente AST appena assunto ai circa 16.000€ al mese per un funzionario di massimo livello con oltre quattro anni di anzianità. Come nel caso di molte organizzazioni internazionali, i salari sono sottoposti ad un sistema di tassazione diverso da quello del paese in cui i funzionari svolgono le proprie mansioni; le tasse variano dall'8% al 45% e contribuiscono al bilancio dell'UE. Agli stipendi base possono aggiungersi varie indennità, riconosciute ad esempio a chi ha dovuto lasciare il proprio paese di origine per lavorare alla Commissione, e assegni familiari. 

I dipendenti della Commissione versano il 2% dello stipendio base per l'assicurazione sanitaria e il 10,3% circa per la pensione; attualmente è dovuto un ulteriore contributo cosiddetto "di solidarietà", del 6-7%. La pensione di anzianità viene ottenuta di norma a 63 anni, anche se sono possibili pre-pensionamenti (con riduzione dell'assegno di pensione) a 58 anni e pensionamenti posticipati a 67 o, in via eccezionale, a 70 anni. L'ammontare massimo della pensione di anzianità è pari al 70% dell'ultimo stipendio base. Se da un lato è vero che i presidenti di Commissione, Parlamento e Consiglio vogliono accelerare il processo di uscita, sollecitando i negoziati, bisogna ammettere che almeno uno tra questi si è preoccupato della questione del personale. 

Infatti, Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha scritto una lettera ai “suoi” funzionari britannici, rassicurandoli sul loro futuro. Nella lettera viene sottolineato l'enorme contributo al progetto europeo che questi lavoratori hanno fatto nel corso degli anni. E 'in questo spirito di reciproca lealtà, che Juncker lavorerà con i presidenti delle altre istituzioni europee per assicurare che tutti siamo in grado di continuare a beneficiare del loro talento notevole, dell'esperienza e dell'impegno. Quello che si vuole premiare è lo spirito di lealtà dimostrato dal personale britannico, il quale ha messo al primo posto la professionalità e la neutralità per il funzionamento delle istituzioni europee, mettendo da parte ogni interesse legato allo Stato di appartenenza. Juncker ha assicurato che farà tutto ciò che è in suo potere come presidente della Commissione, per sostenere ed aiutare in questo difficile processo il personale britannico.  Il regolamento del personale quindi sarà letto e applicato in uno spirito europeo. Juncker scrive che “Gli occhi del mondo saranno su di noi, nell'attesa che portiamo stabilità, agiamo in modo deciso e sosteniamo i valori europei. Ho tutta la fiducia in voi. Assieme saremo all'altezza di questo compito”. 

In altre parole questo significa, che verrà fatto quanto necessario per tenere il personale britannico all'interno delle istituzioni, almeno fino alla conclusione di ogni singolo contratto. Tuttavia, anche l'EPSO (European Personnel Selection Office), l’organo che si occupa dei concorsi per le assunzioni all'interno delle istituzioni europee, per la prima volta dalla sua esistenza, deve riorganizzare le quote, ma ancora non si sanno i tempi precisi. Infatti, iniziando i negoziati per l’uscita del Regno unito, si spera (con immensa gioia di Italia, Francia, Germania e Spagna), che le quote destinate proporzionalmente per il personale di ogni paese membro possa aumentare, dal momento che non ci saranno più assunzioni per i cittadini del Regno Unito. Le procedure sono ancora da chiarire, tuttavia una cosa è certa: i lealisti inglesi dentro la Commissione sono stati premiati. 

Maria Elena Argano

Note: 
Sito della Commissione europea: 

martedì 21 giugno 2016

Profile on Ansar al-Sharia in Libya

Profile on Ansar al-Sharia in Libya


While the world is looking at the ongoing conflict in Syria and Iraq as a major source of stability in the Middle East, there seems to be a tendency to ignore other conflicts in the region such as what is going on in Libya and Yemen. From Italy’s perspective, the Libyan conflict has been a major problem for its security and stability. One group responsible for this instability in Libya is the Salafist organisation known as Ansar al-Sharia in Libya (ASL). Its efforts to create a truly integrated insurgency network in conjunction with Al-Qaeda is noteworthy as many of its peers such as Daesh do not have this goal in mind. In trying to understand ASL, The Libyan state response to its emergence must also be looked at as it has a major effect on the organisation’s strategy as well as its relationship with its peers and rivals. ASL had major potential to be a potent insurgent organisation in Libya but circumstances beyond its control have caused it to be undermined and weakened since 2014. 

The ideological underpinnings of ASL began far before the first Libyan civil war in 2011. To understand ASL’s hard line stance on Sharia law, it is necessary to understand the Gaddafi regime’s stance on Sharia prior to its defeat. Gaddafi’s regime was known to be taking a peculiar ideological stance by 1972 with the introduction of the Third Universal Theory. In short, the theory was seen by Gaddafi as being an alternative to the traditional bi-polar capitalism vs communism model that the world was focusing on at the time. It involved strong support for both pan-Arabism and Islamism which were seen as being the main driving forces behind humanity’s progress.[1] However, Gaddafi soon went on to soon develop a policy which was grounded in de-facto secularism by the mid-1970s. Not only this, Gaddafi was not afraid to make claims about Islam which undermined many orthodox beliefs. The role of imams was seen as being superfluous to Gaddafi which angered many prominent members of the Islamic religious leadership. What ensued was a substantial purging of religious leaders critical of Gaddafi between May and June 1978.[2] The ideological underpinning of Gaddafi’s Third Universal Theory known as the Green Book was eventually publicly seen by the religious leadership as being incompatible with Islam. While Gaddafi seemed to still believe in Islam, his view was certainly incompatible with the traditional Sunni interpretation of Islam. What is of relevance is Gaddafi’s open claim that sharia is not an essential element of Islam.[3] This created a political environment which made future key ASL leaders such as Mohammad al-Zahawi feel ideologically undermined by the Gaddafi regime. What is also important is the fact that Gaddafi openly persecuted future key ASL figures such as Mohommad al-Zahawi , Nasser al-Tarshani and Ahmed Abu Khattala[4] by imprisoning them at the infamous Abu-Salim Prison in Tripoli.[5] There is no doubt that they were imprisoned for their Islamist beliefs which by 1978 were counter to Gaddafi’s policy on Islam. The treatment given to Islamists such as al-Zahawi and al-Tarshani certainly did not create any room for a moderate approach as conditions in the prison were recognised as being horrific at best with torture, executions and unhealthy conditions being constantly used.[6]
Brian O'Connor

Notes:
[1] Ronald Bruce St John, Libya Continuity and Change, (Routledge, London , 2011 ), p56 
[2] Ronald Bruce St John, Libya Continuity and Change , p70 
[3] Ronald Bruce St John, Libya Continuity and Change , p70 
[4] Mary Fitzgerald, ‘A Conversation with Abu Khattala’, The New Yorker, (2014), cited [2016-04-12], http://www.newyorker.com/news/news-desk/a-conversation-with-abu-khattala 
[5] Mary Fitzgerald, ‘It Wasn’t Us’, Foreign Policy, (2012), cited [2016-04-12], <http://foreignpolicy.com/2012/09/18/it-wasnt-us/> 
[6] Amnesty International, ‘Rising from the Shadows of Abu Salim Prison’, Amnesty (2014), cited [2016-04-12],< https://www.amnesty.org/en/latest/news/2014/06/rising-shadows-abu-salim-prison/> 

venerdì 17 giugno 2016

Strage di Orlando, quali implicazioni?

Strage di Orlando, quali implicazioni?



I Fatti
Sono all'incirca le 2 del mattino ad Orlando, in Florida, e nel locale gay Pulse, uno dei più conosciuti e frequentati della città, è in corso l’“Upscale Latin Saturday”, una delle tante serate a tema organizzate dalla discoteca. Il locale è gremito: secondo stime attendibili sono presenti più di 300 persone, che ballano e scherzano come in una normale serata fuori con gli amici. Poi gli spari, dapprima scambiati per effetti musicali, diffondono il panico tra i presenti: molti tentano di fuggire, nascondendosi nei bagni o nei camerini, o persino sotto ai corpi senza vita, i corpi di quelli che a fuggire non sono riusciti. Una decina di minuti dopo l’inizio della sparatoria i gestori pubblicano un post nella pagina Facebook del locale, “Everyone get out of Pulse and keep running”; a questo si aggiungono centinaia di altri post sui social network, testimonianze o disperate richieste d’aiuto. Per molti infatti i momenti di terrore non sono ancora finiti: l’attentatore, dopo aver sparato sulla folla, si barrica nella discoteca con trenta persone. Solo alle 5 del mattino, dopo una lunga negoziazione, le autorità intervengono, facendo irruzione nel Pulse, e innescando una sparatoria con l’assalitore, che ne resta vittima. Il bilancio dell’attentato è allarmante: 50 persone morte, presto identificate, e 53 ferite. Si parla della più grave strage da arma da fuoco nella storia degli Stati Uniti. L’attentato è stato poi rivendicato dallo Stato Islamico: la conferma ufficiale è giunta dapprima tramite Amaq, agenzia di stampa dello Stato Islamico, e in seguito dalla radio al Bayan, anche se nel corso delle negoziazioni con le autorità il primo riferimento era giunto proprio tramite la viva voce dell’attentatore. Quest’ultimo è stato identificato dalle autorità come Omar Mateen, 29 anni, di origini afgane ma nato e cresciuto negli Stati Uniti. Seppur privo di precedenti penali, Mateen era riconosciuto da colleghi e conoscenti come un soggetto instabile, incline ai commenti razzisti e omofobi, nonché alla violenza. Tale dato è stato confermato dall'ex moglie che, nel corso di un’intervista, ha affermato di essere stata più volte vittima di violenze fisiche da parte del marito, tanto da chiedere la separazione e in seguito il divorzio poco tempo dopo la loro unione. 

Modus operandi
Proprio in virtù dell’instabilità emotiva del soggetto, le autorità hanno ipotizzato in un primo momento che Mateen abbia agito di sua spontanea volontà, come “lupo solitario”. L’espressione è stata dai più criticata e confutata, eppure nella sua ambiguità potrebbe essere proprio l’espressione giusta da utilizzare: si dice che il lupo solitario agisca in autonomia, senza essere parte di un’organizzazione che impartisce ordini precisi o pianifica le operazioni logistiche dell’attacco; eppure siamo di fronte ad una contraddizione in termini. Non dimentichiamo che il lupo è infatti un animale che vive in branco, che nulla è senza il branco. Allora delle due, l’una, l’ipotesi più plausibile, è che il branco esista, ma che i suoi metodi di indottrinamento semplicemente confliggano con quelli che l’Occidente conosce o ai quali è avvezzo a ricorrere. Lo Stato Islamico riporta infatti alla luce una forma di volontarismo individuale che si tende a sottovalutare, ma che ne determina il successo dal punto di vista dottrinale e politico; tanto più successo ha questa strategia quando al volontarismo individuale si accompagna il populismo, una forma di populismo informatizzata, che raggiunge tutti i potenziali adepti, e con cui lo Stato Islamico si rivolge direttamente al suo popolo. Benché difficile da definire e identificare, forse lo Stato Islamico è molto più vicino alla definizione classica di Stato di quanto si possa pensare: la conquista del territorio, il tentativo di dare corpo a un popolo, l’imposizione di una sovranità gerarchizzata sono gli elementi dell’allarmante evoluzione della sua struttura e organizzazione. La totale inadeguatezza della risposta dell’Occidente a questa nuova forma di potere politico, già emersa in occasione dei precedenti attacchi terroristici che hanno colpito il cuore dell’Europa, emerge anche dalla triste vicenda di Orlando. Gli scettici e i critici sottolineano che, quando ci si riferisce all'attentatore, più che di “lone wolf”, bisognerebbe parlare di “known wolf”: Mateen infatti era già stato oggetto di indagini tra il 2013 e il 2014, dapprima per aver pronunciato gravi frasi razziste sul proprio posto di lavoro, e in seguito per un suo presunto legame con l’attentatore suicida Moner Mohammad Abu Salha. In entrambi i casi però l'FBI non prese alcun provvedimento, chiudendo le indagini per l’inconsistenza delle prove fino a quel momento raccolte.

Omofobia tra Islam e Occidente
A negare un possibile legame di Mateen con lo Stato Islamico sarebbe proprio il padre dell’attentatore, Seddique Mateen, che, all'indomani della strage, nega ogni possibile movente di tipo religioso. L’affermazione che ha più scosso l’opinione pubblica si collega tuttavia all'omosessualità delle vittime della strage: secondo Seddique infatti il figlio sarebbe rimasto negativamente impressionato di fronte a due uomini che si scambiavano pubbliche effusioni a Miami, tempo prima; “Solo Dio può punire i gay e l’omosessualità, questo non spetta ai servi di Allah”, aggiunge poi nel video in cui prende le distanze dal gesto del figlio. Il tema del rapporto tra religione islamica e omosessualità, sempre latente, riemerge con preponderanza all'indomani della strage e necessita di alcune chiarificazioni. È innanzitutto necessario specificare che il concetto di omosessualità come identità sessuale nasce nei paesi arabo-islamici in tempi estremamente recenti, in particolare a inizio secolo, parallelamente alle prime rivendicazioni avanzate a livello internazionale; solo in seguito le comunità più tradizionaliste inaugurano un discorso di condanna nei confronti dell’omosessualità. Se guardato dal punto di vista giuridico, il discorso sull'omosessualità si fa più complesso: sanzioni varie, anche di carattere penale e che contemplano punizioni corporali e violenze fisiche di vario genere, sono infatti previste nel diritto islamico nei confronti della sodomia (liwat); non figura alcun riferimento infatti all'omosessualità intesa da un punto di vista identitario. Il diritto islamico è irrimediabilmente legato ad una visione medicalizzata del crimine, per cui l’atto criminoso viene assimilato a una malattia vera e propria, da cui è necessario guarire per poter ottenere il perdono divino. Se da un lato si tende a dare per scontato che questo atteggiamento di condanna sia frutto solo del retaggio religioso dell’Islam radicale, non è tuttavia scontato che l’Occidente sia stato, o sia ancora, estraneo a simili forme di stigmatizzazione: non è infatti da sottovalutare, quando si parla di condanna dell’omosessualità, l’influenza della legislazione coloniale cui questi paesi sono stati sottoposti in passato, in primis quella britannica. Per quanto riguarda invece l’Occidente contemporaneo, benché l’omosessualità non venga formalmente criminalizzata, sopravvive il vergognoso pregiudizio nei confronti dell’altro, di chi non si conforma in tutto e per tutto al modello eterosessuale, che nel corso della storia abbiamo reso dominante. Ultimo fattore, anche se non per importanza, che caratterizza il rapporto tra Islam e omosessualità è la cosiddetta “Teoria dell’importazione”, ovvero la tendenza ad allontanare da sé il fenomeno, ad esotizzarlo per renderlo estraneo: l’omosessualità diviene quindi prodotto dell’Occidente e di Israele, che hanno esportato e diffuso il fenomeno anche nei paesi arabo-islamici, loro malgrado. Eppure all'attentato sono seguite anche numerose dichiarazioni di solidarietà da parte dei fedeli moderati, e tutte le comunità Lgbt sparse per il mondo hanno manifestato la loro piena vicinanza alle vittime, esprimendo cordoglio e rendendo ancora una volta nota la richiesta di rispetto dei propri diritti. “Ieri è stato un giorno straziante, specialmente per tutti i nostri amici e concittadini gay, lesbiche, transgender e bisessuali”, ha affermato il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama all'indomani della strage, nel corso del discorso ufficiale tenuto di fronte alla stampa.

La detenzione di armi da fuoco negli Stati Uniti
“Questo massacro- ha continuato Obama- è un’ulteriore prova di quanto sia facile mettere le mani su un’arma che permette di compiere stragi nelle scuole, nei cinema, nelle Chiese e nei locali”, facendo riferimento all’argomento più discusso degli ultimi anni, ovvero il commercio e la detenzione legalizzati di armi negli Stati Uniti. Proprio negli Stati Uniti infatti, che pure ospitano solo il 4% della popolazione mondiale, si concentra il 50% dei civili che possiedono un’arma. Eppure non può essere ignorato il Secondo emendamento alla Costituzione Americana, secondo cui “essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà mai essere infranto”, né si può non tenere conto della pronuncia della Corte Suprema che, nel 2008, ha sancito ancora una volta l’inviolabilità del diritto dei privati cittadini a detenere armi da fuoco. Benchè pertanto i dati relativi a omicidi di massa e più in generale a omicidi da arma da fuoco siano estremamente sconfortanti, non sembrano esserci i presupposti per un’inversione di rotta a breve termine, tanto più che dei candidati alla Presidenza degli Stati Uniti la sola Hillary Clinton ha assunto una posizione decisa rispetto all’imposizione del divieto di detenzione di armi da fuoco per i privati cittadini.

Quali conseguenze sulle campagne elettorali?
Quello della detenzione di armi da fuoco non è tuttavia l’unico argomento di discussione che, in seguito alla strage di Orlando, ha spinto i principali protagonisti della politica statunitense a rilasciare dichiarazioni ufficiali. Mentre la Clinton ha riconfermato i toni moderati che hanno caratterizzato la sua campagna elettorale fino a questo momento, lo stesso non può dirsi per il candidato repubblicano Donald Trump, che con un post pubblicato sul suo profilo twitter si è rivolto direttamente ai propri sostenitori. “Vi ringrazio per le congratulazioni per aver avuto ragione sul terrorismo dell’Islam radicale, non voglio congratulazioni, ma durezza e vigilanza”. Il post si inscrive perfettamente nelle affermazioni precedenti di Trump su temi caldi quali terrorismo e immigrazione. Quest’ultima, in particolare, secondo il candidato, dovrebbe essere scoraggiata e ai musulmani dovrebbe essere interdetto l’ingresso nel paese proprio al fine di tutelare quest’ultimo da attacchi terroristici di matrice islamista. Trump ha contestualmente criticato l’atteggiamento di Obama, invitandolo addirittura a rassegnare le dimissioni e accusandolo di aver volutamente tralasciato di sottolineare la matrice islamica radicale dell’attentato. Il Presidente ha infatti definito l’attentato come frutto di homegrown extremism, aggiungendo che non esistono prove certe e inconfutabili di un legame diretto tra l’attentatore e lo Stato Islamico. La strage di Orlando e il panico che ne deriva stanno dunque facendo emergere, con ancor maggiore prepotenza, le idee e le posizioni dei candidati alla Casa Bianca, e potrebbero in qualche modo stravolgere i delicati equilibri venutisi a creare negli ultimi giorni. A seconda delle reazioni dei cittadini americani potremmo infatti riscontrare le conseguenze dell’attentato nei prossimi sondaggi. Un evento come quello avvenuto ad Orlando si presta a innumerevoli riflessioni, molte delle quali, come si è visto, investono ambiti di vario genere, dal politico al sociale. Al di là di ogni riflessione o analisi, ciò su cui bisogna riflettere e che non si può dimenticare è il sacrificio di tante vite, immolate sull'altare del potere. Non è forse questa la beffa più grande? Sapere che il nemico esiste, ma non sapere dove e quando colpirà ancora? Finché non avremo imparato a conoscere e comprendere il terrorismo e chi lo mette in atto, non potremo che piangere sui corpi senza vita di vittime scelte dal destino.
Alessia Girgenti

BIBLIOGRAFIA
· P.J. Salazar, “Parole armate. Quello che l’Isis dice e che noi non capiamo”
· S. Tolino, “Atti omosessuali e omosessualità fra diritto islamico e diritto positivo”

mercoledì 15 giugno 2016

Brexit, quale idea ?

Brexit, quale idea ?



Manca ormai poco al verdetto sulla BREXIT e lo decideranno i britannici che in queste ultime settimane sono stati letteralmente bombardati, oltre che da un dibattito interno estremamente acceso, da sollecitazioni più o meno invasive da parte di personalità politiche e/o istituzionali del mondo intero, da Obama ai leader del G7, per non parlare della marea di commenti, analisi, editoriali comparsi su questo tema da diversi mesi a questa parte. 

Su richiesta, vi aggiungo la mia, di opinione, in estrema sintesi. Diciamoci subito che fin dalla sua adesione la Gran Bretagna ha sempre avuto un atteggiamento utilitaristicamente supponente, da paese convinto di rappresentare un tale valore aggiunto per il condominio europeo da poter godere di un trattamento privilegiato, una partecipazione “à la carte”, come si dice. “No” a Shengen, “No” all’euro; “Ni” a tutta una serie di disposizioni comuni e da ultimo, a pochi mesi dal referendum il negoziato per escludere (gennaio 2016) l’applicazione alla Gran Bretagna del principio fondante del Trattato di Roma del 1957: quello di puntare a “una sempre più stretta unione”. 

Nel corso degli anni, mi sono chiesto spesso se la Gran Bretagna meritasse tutte queste eccezioni, altrettante ragioni di indebolimento del tessuto connettivo dell’Unione e ho avuto diverse volte la tentazione di rispondermi di no. Se questa continua seminagione di alterità nazionalistica non stesse fertilizzando distanza, separatezza dall’Europa e dunque sempre minore attrazione a favore di una crescente indifferenza e ostilità nei confronti della bandiera europea. E altrettanto spesso mi sono chiesto se fosse lungimirante dare tanta prevalenza alle ragioni di carattere economico e finanziario a scapito di quelle di carattere politico e sociale. Me lo sono chiesto soprattutto dopo il voto negativo della Francia sulla Costituzione europea nel 2005.

I miei dubbi e le mie perplessità sono andati poi consolidandosi quando ho osservato come queste criticità si andassero incrociando con una deriva euroscettica che si andava affermando e in maniera trasversale fra tutti i paesi membri: complice la crisi socio-economica ormai annosa e insuperata; complice la paura dell’onda migratoria e della malamente correlata minaccia terroristica; complice, diciamocelo con franchezza, una dirigenza politica, a livello nazionale ed europeo, con una corta visione di futuro e una scarsa capacità di volare alto che ha dato spazio crescente alla burocrazia tecnocratica bruxellese, diventata padrona del campo. Dove abbiano portato l’insieme di queste complicità lo vediamo nel fallimento della gestione dei flussi migratori così come nella difficoltà di sviluppare una strategia di sicurezza e di politica estera degna di questo nome. Lo vediamo nel crescente rifiuto di cedere ulteriore sovranità nazionale e, ciò che è peggio, nella preoccupante aspirazione a recuperare brandelli della sovranità già ceduta, che qua e là affiora, e non solo in Francia.

Lo constatiamo nella disaffezione verso tutto ciò che si riassume nelle due parole “Unione Europea”, in quell’euroscetticismo che oscilla tra gli estremi di chi la vorrebbe veder scomparire, questa Unione Europea, e chi la vorrebbe rifondare ex novo. Un’Europa dei popoli, dicono alcuni, un’Europa delle macro-regioni dicono altri, un’Europa che salvaguardi le specificità nazionali e si sburocratizzi. Nessun paese membro appare ormai esente da queste diverse velleità riformistiche, dalla Francia, che più appare pervasa da questa disaffezione, alla Polonia che invece svetta come campione di europeismo (72%), seguita a distanza dall’Italia (58%). Eppure, paradossalmente, anche nei paesi più euroscettici regna sovrano il timore che il referendum britannico possa sanzionare la vittoria del voto favorevole all’uscita di Londra dall’Unione europea. Si paventano conseguenze perniciose sul piano commerciale, si delineano scenari catastrofici a livello finanziario, quasi ignorando che in questo mondo globalizzato la finanza gode di una quasi assoluta libertà di movimento e che la non appartenenza all’Unione europea non riduce certo la forza degli scambi transatlantici e/o con i paesi dell’estremo oriente.

Viene in realtà il sospetto molto forte che quel timore sia legato alla prospettiva che in questa stagione di evidente criticità, la vittoria del voto anti-Unione europea da parte britannica possa dare la stura ad una sequenza inarrestabile di richieste di referendum similari negli altri paesi membri; un fenomeno “palla di neve” difficilmente controllabile, un effetto domino suscettibile di far sgretolare l’intera Unione europea. Questa è una prospettiva tutta da verificare nei termini e nelle condizioni, ma che certo non si può affatto escludere; e non c’è chi non veda che sarebbe rovinosa sotto tutti i punti di vista. A cominciare dalla capacità di essere condomini a pieno titolo e rango del condominio del mondo, in primis di quello che ci sta attorno, e di salvaguardare quell’eredità che seppure logorata si può ancora lasciare alla maggioranza dei giovani di questo vecchio continente che l’Europa ce l’hanno nel loro DNA. 

Se tutto questo è vero, non è men vero che non possiamo e non dobbiamo permettere che sia il voto inglese a sentenziare il destino dell’Unione Europea. Possiamo e dobbiamo contare sul fatto che, qualunque sia l’esito del referendum, questa pur non brillante dirigenza nazionale e comunitaria riesca a riprendere la strada all’insegna di una vera bandiera europea e non di un’Europa di facciata. Una prima indicazione preziosa in proposito verrà dal prossimo vertice dell’Unione a fine mese, a referendum votato e v’è da sperare che essa sia nel segno delle interessanti indicazioni in senso riformistico, ma di marca fortemente europea che stanno emergendo da diverse capitali e dalla stessa BCE.

Armando Sanguini, già Ambasciatore d'Italia a Tunisi e Ryiad

lunedì 13 giugno 2016

Loi travaille, la riforma che divide la Francia

Loi travail, la riforma che divide la Francia



In Francia la “Loi travail”, la riforma del lavoro presentata dal ministro Myriam El Khomri ed approvata il 12 maggio 2016 in prima lettura all’assemblea nazionale, continua a dividere il paese generando anche un ulteriore fratricidio nella Sinistra. Siamo già al quarto mese di protesta: continuano gli scontri e le manifestazioni nelle piazze, non si placano le ostilità. Picchetti nei porti, nelle centrali nucleari e nelle raffinerie. Per pacificare le parti non è bastato che il premier francese Manuel Valls aprisse alla «possibilità di apportare modifiche, miglioramenti». La CGT (Confédération générale du travail ), storico sindacato d’oltralpe, non intende arretrare, e chiede il ritiro della riforma. Sebbene sia a rischio l’immagine stessa del paese, Fabrice Angei - leader della CGT - ha affermato che Hollande dovrebbe preoccuparsi. «Euro 2016 non fermerà il nostro movimento».

Come se non bastasse, le divergenze sulla questione emergono anche all’interno dello stesso partito di governo, circa 30 deputati del Partito socialista, cosiddetti “Frondeurs” non condividono i principi della proposta di legge. La “Loi travail” mira, almeno nelle intenzioni, ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. Introdurrebbe, con l’articolo 2, un rovesciamento nella gerarchia delle norme. Le modifiche principali interessano gli orari di lavoro, la facilitazione nelle procedure di licenziamento per ragioni economiche (riducendo i ricorsi davanti al giudice) e quindi il declassamento degli accordi di settore in favore di quelli aziendali. Insomma, con le dovute precisazioni, non mancano le analogie rispetto al nostro Jobs act.

Nonostante qualche voce autorevole si ostini a vedere solo «una battaglia per l’egemonia tra sindacati», un sondaggio IFOP (Institut français d'opinion publique) rileva che, solo il 13 per cento dei francesi si esprime in senso favorevole alla riforma: praticamente il dissenso inonda il paese più delle piogge torrenziali della scorsa settimana. La protesta è trasversale: non mancano i parallelismi col “maggio francese del sessantotto” (la mezza rivoluzione che dalle università si estese alle fabbriche facendo vacillare la Quinta Repubblica) anche se alle odierne “Nuit debout” (notte in piedi), chi ha navigato quel periodo storico afferma che, bisogna attribuire un significato diverso. L’economia è in crescita, il malcontento popolare va oltre la “Loi travaille”. Il clima di unità, instauratosi a seguito delle vicende terroristiche che hanno investito il paese nello scorso anno, sembra essersi affievolito, facendo emergere tutta la debolezza politica del paese.

La possibilità di influire sul contenuto del testo di legge prima della sua approvazione definitiva, prevista per fine luglio, potrebbe intensificare le mobilitazioni minacciando l’ordinario svolgimento dei campionati europei di calcio, al momento in corso. Aggiungendosi così alle “eurobestie d’oltremanica”, che non pochi disagi hanno provocato nella città di Marsiglia nella giornata di sabato in occasione del Match Inghilterra vs Russia
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Antonio Alfonso

venerdì 10 giugno 2016

A Parigi per dire no alla povertà estrema

A Parigi per dire no alla povertà estrema



Si è appena concluso il Summit Europeo di ONE, ONG co-fondata da Bono degli U2 e sostenuta da oltre 7 milioni di membri in tutto il mondo, che a Parigi che ha visto la partecipazione di più di 250 giovani provenienti da 7 paesi europei e dalla Nigeria rappresentando oltre 50 nazionalità per chiedere ai leader mondiali eque opportunità per donne e bambine nei paesi in via di sviluppo. Proprio alla vigilia del campionato di calcio europeo che si svolgerà a Parigi questa settimana, gli Youth Ambassadors europei hanno voluto dimostrare al mondo che la 'povertà è sessista' e lo hanno fatto ricreando un campo da calcio in una piazza Parigina per garantire a donne e ragazze la stesse possibilità di cui godono gli uomini. 

Il messaggio “La povertà è sessista. Non lasciamo donne e bambine a bordo campo” è rimasto impresso la mattina del 1 giugno sulla piazza parigina che non si aspettava uno stunt di simili dimensioni (700 metri quadrati d campo che sono stati occupati dai giovani attivisti). Il messaggio è chiaro investendo sulle donne e sulla parità di genere si aiuta la società e in particolare i paesi in via di sviluppo ad uscire più rapidamente dalla povertà. Oggi, infatti, più di 62 milioni di ragazze non ricevono un'educazione, in Africa 3 adolescenti su 4 che contraggono l'HIV sono ragazze e una donna in Sierra Leone rischia 183 volte di più rispetto che in Svizzera di morire di parto. Il messaggio è mirato a spingere i leader mondiali ad attuare delle azioni concrete per un mondo migliore e con meno ingiustizie. E i risultati ci sono: già dal 1990 al 2012 grazie alla cooperazione allo sviluppo il numero di persone che vive nella povertà estrema si è ridotto di oltre il 66% ma ancora c'è tanto da fare per sradicarla del tutto.

Il Summit ha avuto luogo in concomitanza con il Forum OSCE che ha visto la presenza di oltre 40 delegazioni mondiali per discutere di temi internazionali come realizzare le promesse fatte lo scorso anno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Proprio durante il Summit i giovani attivisti di ONE hanno incontrato politici internazionali tra i quali: il Ministro degli Affari Esteri Francese, il Ministro per la Cooperazione allo Olandese e Sloveno e rappresentanti politici provenienti dall’Italia, Germania, Irlanda, Svezia, Svizzera e Australia. Infine, gli Youth Ambassadors hanno avuto la possibilità di incontrare il Segretario Generale dell’OCSE Angel Gurría e il Direttore della Comitato per la cooperazione allo sviluppo Erik Solheim, e Pascal Saint-Amans, Direttore per il Tax Center dell’OCSE. "Questa generazione può essere, ed infatti sarà la prima a vedere la fine della povertà estrema. Da Parigi a Lagos, passando attraverso Berlino, Roma, Bruxelles, L’Aia, Dublino e Londra la mobilitazione dei nostri giovani ambasciatori è enorme. I leader del mondo non possono ignorarla - ha spiegato Adrian Lovett, CEO di ONE ad interim”. 

Gli obiettivi italiani sono il rifinanziamento del Fondo Globale per la lotta all'HIV, malaria e tubercolosi, previsto in Canada a settembre; “Gli Youth Ambassadors di ONE chiedono ai leader a Parigi di annunciare il prima possibile il loro supporto economico al Fondo Globale. Siamo felici che l’Italia organizzi una conferenza sul Fondo Globale il prossimo 27 Giugno e chiediamo al Primo Ministro Renzi di aumentare l’impegno dell’Italia ad almeno 200 milioni di euro per i prossimi 3 anni. Questo sarebbe un forte segnale dell’ambizione italiana e dell’impegno verso lo sviluppo internazionale, specialmente in vista della presidenza del G7 il prossimo anno – aggiunge Lovett”. Ma non meno importanti sono i temi della lotta alla corruzione, in particolare di quelle multinazionali che operando sul territorio di paesi in via di sviluppo non ammettono una rendicontazione pubblica del proprio bilancio nascondendo possibili illeciti e sprechi di denaro che altrimenti potrebbero aiutare le popolazioni meno fortunate. 

Giulio Bono, ONE Youth Ambassador Italy

giovedì 9 giugno 2016

Conclusioni del Consiglio europeo, visti turchi e condizioni dei Tartari di Crimea

Conclusioni del Consiglio europeo, visti turchi e condizioni dei Tartari di Crimea


Intervista all'eurodeputato Antonio Panzeri


L’11 e il 12 Maggio, durante la seduta plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, tra i temi affrontati ci sono stati quelli dei visti per i cittadini turchi, e la questione dei Tatari di Crimea. L’accordo UE-Turchia del 18 Marzo, tra i tanti punti, stabilisce la necessità di adempire a 72 punti  al fine di ottenere i visti per i cittadini turchi. Tuttavia dalle ultime dichiarazioni del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, traspare un comportamento di sfida, fondato sulla minaccia della sospensione dell’accordo. Allo stesso tempo, spostandosi più a nord, la questione dei Tatari di Crimea preoccupa l’Europa. Infatti, dopo l’annessione della Crimea, questa minoranza etnica continua a subire delle repressioni da parte di Mosca. Il 23 Maggio il Consiglio europeo, riunitosi a Bruxelles, ha discusso tre argomenti fondamentali: la questione migratoria, la strategia regionale dell'UE relativa alla Siria e all'Iraq e alla minaccia rappresentata dal Da'esh, e l’operazione nel Mediterraneo centrale. Il Consiglio ha adottato conclusioni sulla strategia regionale dell'UE relativa alla Siria e all'Iraq e alla minaccia rappresentata dal Da'esh in cui definisce le sue priorità nel lavoro per instaurare durevolmente la pace, la stabilità e la sicurezza in Siria, in Iraq e nella regione nel suo complesso. L'UE appoggia attivamente un processo che porti a una transizione politica credibile e inclusiva in Siria, nell'ambito del gruppo internazionale di sostegno alla Siria e a sostegno dell'inviato speciale delle Nazioni Unite de Mistura. I ministri degli esteri si sono poi soffermati sull'attuazione della dichiarazione UE-Turchia del marzo 2016 e hanno sottolineato il loro impegno a affrontare collettivamente la sfida della migrazione. Infine, Il Consiglio ha convenuto di prorogare il mandato dell'operazione di un anno e di aggiungere due compiti aggiuntivi: la formazione della guardia costiera e della marina libiche e il contributo all'attuazione dell'embargo delle Nazioni Unite sulle armi in alto mare al largo delle coste libiche. Il 2 giugno a Bruxelles, l’eurodeputato Antonio Panzeri, impegnato attivamente sulla questione turca e dei Tatari di Crimea ha risposto a delle domande sugli argomenti sopra citati. L'obiettivo era quello di capire le politiche principali dell’Unione europea, e le strategie messe in atto per far fronte alle nuove sfide.

Per quanto riguarda le conclusioni del Consiglio di giorno 23 Maggio, si è deciso di incrementare l’operazione Sophia prolungando di un anno l’operazione EUNAVFOR MED, e quindi adesso le navi europee, in seguito alla richiesta del governo legittimo libico, possono entrare in acque libiche e possono addestrare la loro guardia costiera. La mia domanda è: secondo lei questa misura rallenterà i flussi?
Non credo, non penso. Semmai avremmo qualche attenzione in più, ma non penso che il flusso possa essere fermato, perché non ci sono le condizioni territoriali e politiche. In Libia, aldilà del riconoscimento fatto internazionalmente, di fatto c’è un lavoro lungo che deve essere fatto: c’è un alto livello di instabilità. Non siamo nelle stesse condizioni della Turchia.

Nelle conclusioni si parlava dell’incremento dell’accordo con la Turchia, il ché significa continuare a mantenere il lato est chiuso. Adesso c’è anche l’implementazione di questa missione nel Mediterraneo centrale. Secondo lei, pian piano, l’Europa si va chiudendo?
Che ci sia un processo di chiusura è dimostrato dall’atteggiamento che diversi paesi e diversi governi hanno. Abbiamo discusso nelle recenti settimane dei muri e dei fili spianti e questo è il segno del tempo che stiamo vivendo. Sono convinto che però la questione della migrazione va giocata su più tasti e non solo sull’idea della difesa della frontiere esterne. Non ho una visione positiva dell’accordo turco, perché ha prodotto sicuramente un rallentamento dei flussi, tuttavia come vengono trattati i migranti nessuno lo sa, nessuno gestisce la cosa. C’è il problema che diamo soldi ad un regime che si sta materializzando in una forma di dispotismo, quindi ho molte preoccupazioni: serve ben altro per affrontare la questione.

Il leader dell’opposizione siriana è stato presente alla recente riunione dell’AFET, e ha detto che l’Europa deve sempre più impegni al livello politico. Ma è anche vero che l’Europa ha investito e continua a investire ingenti somme verso la Siria, 3 miliardi, 751 miliardi per le emergenze in Africa, 6 miliardi alla Turchia, partecipazione alla coalizione internazionale contro l’ISIL. Qual è la chiave di lettura? Fino a quando l’Europa continuerà a versare queste ingenti somme? Somme che potrebbero essere investite altrove.
Il problema delle risorse, in realtà non è un problema se avessimo un protagonismo politico. Per esempio nella questione siriana dovremmo avere un ruolo attivo che accompagni e permetta la transizione. C’è la necessità che la messa a disposizione delle risorse finanziarie sia accompagnata da una iniziativa politica, e che non siano delle quote a fondo perduto.

È quello che si vede un po’ nel Mediterraneo centrale, perché in una recente dichiarazione congiunta tra Federica Mogherini e il Segretario generale della NATO si è parlato di una NATO pronta ad intervenire nel caso in cui il governo libico lo chiedesse. Alla fine si affronta il problema sempre sotto l’aspetto della difesa, e non sviluppando un programma di collaborazione economica e politica con i paesi di origine dei migranti o con la Libia stessa. Secondo lei l’Europa vuole avere un approccio difensivo?
C’è questa possibilità. Io ho una mia oggettiva posizione sul far intervenire la NATO, perché la NATO ha un'altra vocazione, e in ogni caso l’UE non è sovrapponibile alla NATO. Io continuo a ribadire che serve avere una politica comune sulla migrazione in modo da affrontare i diversi problemi. Ne elenco solo alcuni: difesa delle frontiere esterne, un ragionevole sviluppo della politica di vicinato, la necessità di trovare un equilibrio tra competizione e cooperazione. Parlo degli accordi sul libero scambio, in modo che possano beneficiarne non soltanto i paesi africani ma anche la popolazione. Noi siamo davanti un immigrazione politica, proveniente dalla Siria, ma anche di una migrazione economica. Perché fuggono? Perché non ci sono piani di sviluppo adeguati e nello stesso tempo c’è un’oligarchia in questi paesi e c’è una ricaduta negativa sulle popolazioni. Suona come una bestemmia come così in poco tempo siamo riusciti a fare il tre più tre, e cioè sei miliardi alla Turchia e non siamo in grado di mettere in campo una politica migratoria per i paesi africani.

Secondo lei questo dipende dalla negligenza europea, o dalle oligarchie presenti in molti paesi africani? Motivo per cui alla fine la popolazione non beneficia degli accordi, che hanno un buon fine ma oggettivamente poi non raggiungono gli obiettivi…
Dobbiamo cambiare approccio, dobbiamo rivisitare (anche se scade nel 2020) l’accordo di Cotonou, e dobbiamo fare in modo che l’Europa pigi di più sul tasto della cooperazione perché quella è la via sulla quale è possibile ingaggiare una nuova battaglia, in modo che le popolazioni possano ricevere dei benefici attraverso una politica di sviluppo nel loro paese: cosa che per ora non avviene per la presenza di queste oligarchie.

A luglio ci sarà il Summit della NATO a Varsavia, dove i maggiori argomenti saranno il rapporto con la Russia, l’approccio in Afghanistan, la Crimea, l’Ucraina. Tutti i paesi stanno cercando di incrementare le loro spese nella difesa (il 2% del PIL), perché lo fanno con la NATO? Perché invece non destinano tale somma per sviluppare una solida politica migratoria?
Serve una coesione e serve una capacità di osservare l’evoluzione geopolitica del mondo, è più probabile destinare dei fondi alla NATO perché ha delle azioni che sono ben coordinate e l’UE fatica perché ci sono 28 diplomazie diverse: è il problema maggiore dell’armonizzazione delle politiche. 

Anche il fatto che in Romania due settimane fa è stata inaugurata la nuova base antiballistica. La Russia ha interpretato questo atto come minaccia. Invece la NATO sostiene che la ragione della nuova base sia la politica offensiva russa. E quindi c’è questo cerchio che non si chiude mai…
Facendo la tara, aldilà degli errori e degli atti che l’UE ha condannato, se porti la NATO a pochi chilometri dalla Russia è normale che questa si fa sentire. È indispensabile avere un approccio più equilibrato, e ricordare che l’Europa è cosa diversa dalla NATO. La NATO è difesa, ha una vocazione militare.

Lei non pensa che attualmente la NATO si trovi costretta ad adottare determinate politiche ad est, per esempio in Romania, Polonia…adesso è stato anche firmato il protocollo per l’ingresso del Montenegro. Non pensa che la NATO lo fa perché questi nuovi paesi vedono l’Alleanza come una protezione, e quindi per rispettare il trattato di Washington la NATO deve agire, quando in teoria non trae profitto dall’aumento delle sue spese militari.
Io non vedo alcuna costrizione. Vedo il fatto che alcuni paesi che si sono liberati dalla presenza sovietica o quelli che si trovano nella zona balcanica vedono la NATO come un ombrello che garantisce la migliore difesa. Abbiamo alcuni paesi che si sentono più americani che europei, e questa non è una cosa buona.

Per quanto riguarda i VISA per Turchi… è stato presentato il Rapporto della Commissione sui progressi fatti dalla Turchia. “Solamente” 7 punti rimangono inadempiti e per due di questi serve più tempo; tuttavia la Commissione sembra soddisfatta dal lavoro che la Turchia sta facendo per i migranti. Allo stesso tempo la Commissione esorta il Parlamento ad approvare la proposta del 4 maggio e cioè di trasferire la Turchia nella lista dei paesi che non necessitano il visto. Sembra, dai discorsi, ci sia da parte della Commissione l’intenzione di cedere ai ricatti di Erdoğan. Quali sono i possibili scenari? Se il Parlamento approva? Se il Parlamento non dovesse approvare?
Che ci sia l’auspicio di chiudere il cerchio da parte della Commissione questo può essere, ma non ci sono oggettivamente le condizioni. Non ultimo il fatto che Erdoğan ha dimissionato il primo ministro e ne sta mettendo uno che corrisponde pienamente alle sue volontà. Inoltre sta mettendo sotto processo 138 parlamentari, togliendo l’immunità, ma sono in realtà dei parlamentari curdi e il tentativo è di giungere un parlamento che gli voti a maggioranza qualificata la modifica della costituzione in senso presidenziale. C’è un involuzione di quel paese non un evoluzione, ci sono dossier aperti che non trovano soluzione, e uno fra tutti quello della libertà di stampa, la libertà di espressione, c’è la vicenda cipriota. Non possiamo concederci di considerare normale il fatto che un paese che potrebbe essere candidato all’Unione europea occupa un altro paese che fa parte dell’Unione europea. Io credo che il Parlamento europeo difficilmente riuscirà a rispondere positivamente a questa sollecitazione finché le cose non cambieranno. Se dovesse accettare, nelle condizioni attuali, vorrà dire che il Parlamento europeo dimostrerà sostanzialmente di essere incapace di avere una visione autonoma, e incoerente nelle proprie vocazioni per quanto riguarda democrazia, libertà e diritti umani. Se non dovesse accettare, come mi auguro, questo mette in fibrillazione i rapporti tra Unione europea e Turchia (già Erdoğan ha ventilato la possibilità di far saltare l’accordo sull’immigrazione), però bisognerà gestire le conseguenze.

L’Europa seconda lei per adesso non è sotto “ricatto” della Turchia, l’Europa ha paura che salti l’accordo di marzo. Questo è il motivo per cui vuole spingere per dare un messaggio…
Il gioco forte lo sta facendo la Germania ma per ragioni che sono ben note, tuttavia al di la del fatto che possa essere un Europa sotto il ricatto di Erdoğan la mia opinione non cambia: bisogna rifiutare i ricatti. Allo stato attuale credo ci sia una maggioranza con questa posizione, ma dal dibattito che si è aperto a me pare che ci sia una condivisione di questa idea. Secondo il mio punto di vista no, Erdoğan non è d’accordo nel soddisfare tutti i punti, non è nelle sue intenzioni. Ma del resto se si è firmato un accordo, questo deve valere per noi come deve valere per loro. L’accordo prevede che ci sia una liberalizzazione dei visti, e io non sono ostile ad una ipotesi del genere ma ci sono tutte le clausole che devono essere soddisfatte.

Ma secondo lei Erdoğan ha interesse a far entrare la Turchia nell’Unione europea?
Ma io penso di no, e lo dico anche se sono uno che ha sempre visto in modo favorevole l’entrata della Turchia in Europa. Credo che ci siano stati errori anche da parte dell’Unione europea, all’ora, nel non spingere sull’acceleratore. Perché se ci ricordiamo all’ora il dibattito era aperto, soprattutto su 2 valutazioni: il fatto di portare dentro un paese con ottanta milioni di abitanti che quindi sarebbe stato il paese più popolato d’Europa, e di conseguenza dal punto di vista economico e commerciale. Nei mercati c’è un dare e un avere: ottanta milioni di persone che entrano su un mercato ma soprattutto che si aprono al mercato. Ma in quel momento la Turchia ha scelto un'altra strada che è stata quella di diventare il leader regionale, e tentò nel 2011 al fronte della primavera araba di essere il riferimento dei paesi che si stavano liberando dai vecchi despoti, e anche all’ora il dilemma era se seguire il modello di Riyadh o il modello di Ankara. Ma anche lì la Turchia è sembrata incapace di essere un punto di riferimento. Quella involuzione ha portato a chiudersi e a spingere una vecchia idea di costruire un nuovo sultanato, ed è la strada che sta conseguendo che va in direzione opposta all’entrata nell’UE.

Per quanto riguarda i Tatari di Crimea. La risoluzione del Parlamento europeo, approvata il 12 Maggio mostra una Russia sempre più offensiva, dichiarando illegittimo l’organo esecutivo della Crimea, il Mejlis. Molti gruppi politici dichiarano la loro preoccupazione, tranne il gruppo di estrema destra che parla di strumentalizzazione, poiché anche l’Ucraina, prima dell’annessione della Crimea non riconosceva la legittimità del Mejlis. C’è veramente una strumentalizzazione? L’UE può fare qualcosa? In che misura si può fare pressione su Putin?
Sono due le questioni che devono essere sottolineate. Che ci sia una strumentalizzazione complessiva di taluni in chiave anti-russa questo è nelle diverse cose che si fanno. Che ci sia un problema dei Tatari bisogna anche riconoscerlo. Esisteva prima, esiste tutt’ora. Il problema è che dovrebbe essere affrontato con un certo realismo. Ammesso e concesso che l’Europa e gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto l’annessione della Crimea, tuttavia il dato fondamentale è che il 90% della popolazione della Crimea si sente pienamente russa. E i tatari sono una minoranza, e sono quella minoranza che non accetta l’idea di una Crimea russa. Allora bisogna agire concretamente nell’ambito di questo limbo, perché da una parte non c’è riconoscimento dall’altra però non c’è nessuna iniziativa che possa riportare la Crimea sotto l’egida dell’Ucraina, allora bisognerà governare al meglio le cose. Pur in presenza di una situazione che non riconosciamo che però nei fatti è così la minoranza tartara possa trovare una migliore convivenza: su questo dobbiamo spingere.

Non è che l’Ucraina stia cercando di fare una politica strumentalizzata? Non è che non vede l’ora che succeda qualcosa per attirare l’attenzione internazionale in funzione anti-russa?
Io credo che la situazione in Ucraina sia molto confusa e abbiamo delle classi dirigenti che si sono dimostrate non capaci nei vari processi di transizione. Penso che siano stati fatti gravissimi errori anche da parte dell’UE, nel momento in cui ha trattato la vicenda con un furore dettato da ragionamenti di pancia più che di testa. L’accordo di associazione va bene, ma l’idea che accanto l’accordo di associazione sia aperto un dibattito sulle possibilità primo dell’integrazione europea, secondo della presenza NATO, tutto questo non ha fatto altro che esacerbare gli animi e creare le condizioni per creare l’alibi ai russi. Quei paesi che sono al confine tra l’UE e la Russia devono essere dei paesi neutrali, autonomi, che non siano tirati né verso Bruxelles né verso Mosca.

Dei nuovi paesi cuscinetto?
Dei nuovi paesi cuscinetto, perché è l’unica garanzia sostanzialmente per mantenere l’integrità territoriale di questi paesi e fare in modo che ci sia un processo di convivenza.

Ma nelle risoluzione c’era anche scritto una specie di sollecitazione per le istituzioni europee competenti a far pressioni su Putin. In che modo?
So che ogni caso è storia a sé. Ma in ogni caso c’è uno scenario che esiste, bisogna trovare la quadra, guardando con un certo realismo e cercare di spingere i russi a riconoscere i diritti umani e la questione delle minoranze. Per salvaguardarli.

Si ma l’Unione europea va incontro a Putin e gli dice “guardi cerchi di riconoscere i diritti dei Tatari, sono più di trecento anni che vengono spostati, sono stati perseguitati…”. Quando si fa una discussione e si deve trattare bisognerebbe essere ad armi pari. Io mi immagino una discussione a due, chiusi in una stanza, in cui l’Unione europea ammonisce Putin, e alla fine Putin risponde: NO! E l’Unione europea che fa? Esce dalla porta e dice “scusi il disturbo, arrivederci”?
Putin può rispondere di no, perché può dire che anche l’UE non riconosce l’annessione della Crimea. Bisogna guardare con realismo sia la vicenda Crimea-Ucraina, sia il fronte siriano e io immagino una discussione che allacci tutti questi problemi qui e si trovi un equilibrio, e nel trovare un equilibrio ci saranno delle condizioni per chiedere a Mosca di fare alcune cose.

E quali garanzie diamo a Mosca? Mosca vorrà qualcosa in cambio.
Si, tra le righe mi è parso di far comprendere cosa [ride]…

Ho capito a cosa si riferisce, ma l’Unione europea non accetterà mai di riconoscere l’annessione della Crimea per garantire i diritti dei Tatari…
Non posso dire cosa l’UE deve riconoscere, ma dico solo che serve un processo e questo processo deve essere realizzato guardando con realismo le cose che sono avvenute e che stanno avvenendo. Rivendicare che la Crimea ritorni all’Ucraina, che è cosa giusta, ed essendo allo stesso tempo nell’impotenza totale perché questo si realizzi significa che c’è qualche elemento che deve farci riflettere su come, nelle condizioni attuali, tentiamo di ristabilire un rapporto con Mosca più equilibrato. E in questo rapporto più equilibrato possiamo avanzare delle richieste che devono essere trovare una risposta positiva.
Maria Elena Argano