sabato 21 novembre 2015

Attentato a Parigi. Facebook e l'anestesia del Corano digitale

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Attentato a Parigi. Facebook e l'anestesia del Corano digitale

 a cura di Matteo M. Winkler e Federico Sbandi   


Come per gli attacchi di Charlie Hebdo (e più che in passato se solo si pensa all’11 settembre 2001 quando ancora Facebook non esisteva), ciò che colpisce nella serie di attacchi che hanno coinvolto Parigi una settimana fa è la sequenza di ritratti di eventi svoltasi, in parallelo rispetto alla realtà, su tutti i social network. Non saranno sfuggiti agli utenti più accorti le valanghe di condivisioni, status e conclusioni apodittiche, accompagnate dall’inaugurazione da parte di Facebook del servizio che consente di far sapere agli amici che chi viveva a Parigi in quel tragico momento stava bene. Alla voce confortante di una telefonata abbiamo sostituito un freddo click.

L’attentato a Parigi ci ha insomma ricordato che Facebook è come Wikipedia. Permette a tutti di contribuire a una comunità collettiva e interconnessa. La libertà di contribuire si traduce presto in dovere civico. La sola possibilità di poterlo fare spinge a contribuire anche persone non competenti. Fin quando l’ignoranza a-portata-di-click, però, posa il suo occhio pigro verso questioni secondarie, la comunità può accettarlo. Trasporre in Rete conversazioni da bar non incide negativamente sulla qualità della vita democratica. Perché si usano strumenti diversi per fare la stessa cosa, dopotutto.

Il problema sorge quando superficialità e gregarismo scavalcano il recinto di questioni complesse. Le strade si svuotano a tutto favore delle bacheche. L’abbiamo visto bene: ci si meraviglia della bellezza della gente che scende in strada in place de la République o nelle fiaccolate di paese, ma è una sensazione che molti si limitano a provare dalla propria scrivania o stravaccati sul divano con un tablet tra le mani. Il dibattito viene annullato dal cambio della foto profilo su Facebook. E la bandiera di turno non viene scelta a seguito di una riflessione interiore. Accade perché il Corano digitale ha suggerito di farlo.

Gli osservatori più attenti faranno notare che l’Occidente ha “scelto” di usare Internet, mentre la versione della realtà offerta dal Corano digitale viene imposta come unica. Eppure la possibilità di usare uno strumento si è presto tradotta in necessità compulsiva. E affermare che l’utilizzo di Facebook sia ancora oggi frutto di una scelta significa solo una cosa: non appartenere a questa epoca.

Qualcuno potrebbe sostenere la favola secondo cui esistano anche altri social network, oltre a Facebook. Ad esempio una delle vittime dell’attacco al teatro Bataclan ha usato Twitter per fornire dettagli sulla situazione e dirigere i soccorsi verso un luogo preciso dell’edificio, dove si trovava assieme a molti altri feriti. Ma sotto il profilo statistico i tempi di permanenza degli utenti parlano chiaro: Facebook è dove l’attentato nasce, cresce e muore. Nasce con le notizie, cresce con i commenti e muore con le foto profilo. Se per influenza intendiamo la capacità di guidare le idee e le azioni umane, l’accentramento di Facebook rende la sua influenza unica nella storia. Mai nessuno si è potuto rivolgere a così tante persone e in così poco tempo.

L’eco del dramma riecheggia però per massimo una-due settimane. Basta guardare quanti ancora oggi hanno la bandiera francese nel proprio profilo. Giusto il tempo di rimuovere acriticamente l’ennesimo dramma anestetizzato da Facebook. Un rapido test consente di validare questa stima. Basta domandare agli utenti dal cambio-di-foto-profilo-facile il senso della bandiera arcobaleno proposta da Facebook il 26 giugno di quest’anno o la nazionalità del bimbo morto sulla spiaggia turca. Molti non ricorderanno neanche più che la sede di Charlie Hebdo fosse proprio a Parigi.

L’incerta memoria di questi eventi fa da contraltare alla risolutezza con cui gli utenti si erano espressi su Facebook solo poco tempo fa. Sparisce intanto il punto di vista critico, perché non c’è più tempo per fermarsi a riflettere: bisogna commentare, ora. L’opinionismo massificato diventa la peggiore delle droghe. Spinge a commentare tutto-e-subito. Ma quando cala l’effetto della dose, e un evento non riveste più alcuna rilevanza nella propria rete sociale, dell’overdose digitale non resta più niente.

L’Homepage di Facebook viene inondata di articoli che ipersemplificano la comprensione della realtà – e indirettamente danno elementi minimi a tutti per commentare. Gli utenti vengono trattati come quei dodicenni che non sanno collocare la Siria e l’Iraq neanche sulla mappa, figurarsi in un assetto geopolitico. Tutti scoprono cos’è stato ieri, dunque possono commentare cos’è stato oggi. Ma nessuno capisce cosa sarà domani.

Il Corano digitale ha stabilito che se solo tutti avessero un profilo Facebook non ci sarebbero più guerre nel mondo, in quanto la connessione conduce alla pace. Interessante a riguardo l’asse Salvini-Fallaci, che ha palesato per l’ennesima volta quanto invece la connessione sia solo molto efficace nel diffondere l’odio.

In compenso gli utenti possono assistere e partecipare a questo spettacolo globale, comodamente dal proprio divano di casa. Stanno insieme, per non sentirsi soli. Commentano per avere il centro dell’attenzione e illudersi di riprendere quell’importanza che il mondo gli ha tolto. Esprimono la loro opinione convinti di darne una originale, oppure condividono quella di sconosciuti pensando che sia quest’ultima ad essere tale, anche se a sua volta è null’altro che un collage di frasi prese qua e là nella Rete.

Gli utenti continueranno a rispondere, quando chiamati all’attenzione, al loro Corano digitale. Ma alla fine della giostra non cambierà nulla. I dittatori resteranno al loro posto. Il gregarismo digitale delle foto profilo non sposterà di una virgola la coscienza delle persone. La Siria e l’Iraq resteranno al loro posto nelle mappe geografiche, che piaccia o no a Facebook. E la politica internazionale continuerà a essere decisa nei palazzi, lontano dai social network. I cinguettii digitali restano poca cosa rispetto alle conseguenze di atti tanto scellerati come quelli cui ormai assistiamo ogni giorno.

Si sospetta che Facebook sia una specie di religione solo perché lo è davvero. Come tutte le religioni causa anestesia intellettuale, perché chiede di accettare una visione delle cose senza fare troppe domande. La vera differenza? L’illusione di aver scelto.

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