sabato 11 luglio 2015

Sinai: dove la vita non conta nulla

#Pensatodavoi

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Sinai: dove la vita non conta nulla



Una terra di nessuno. Una striscia in bilico tra due aree regionali, il Nordafrica e il Medio-Oriente, terra di passaggio di contrabbandieri, criminali e jihadisti. L’assenza dello Stato nella società, eccetto per le forze di sicurezza impegnate a mantenere l’ordine fra la popolazione ormai stremata dalla miseria, dall’esclusione e dalla violenza arbitraria. Stiamo parlando della penisola del Sinai nell’Egitto di Al-Sisi, sfuggita al controllo del governo centrale, ed esposta ai proclami dello Stato islamico. La violenza e il terrore regnano sovrani. Proprio qualche giorno fa un’ondata di attentati ha colpito i checkpoint dell’esercito egiziano nella città di Sheikh Zuweid (a ovest di Rafah) roccaforte del principale gruppo jihadista operante nel Nord Sinai conosciuto come “Ansar Bayt Al-Maqdis” (ABM), il quale ha giurato fedeltà allo Stato Islamico il 10 novembre 2014, cambiando il suo nome originario in Wilayat Sina, la Provincia del Sinai. I jihadisti hanno sparato colpi di mortaio contro i cinque checkpoint nella città di Sheikh Zuweid (a ovest di Rafah) e lanciato un autobomba. Ne sono scaturiti numerosi scontri a fuoco tra i jihadisti e le forze di sicurezza egiziane, le quali hanno in seguito bombardato con caccia F-16 le postazioni dei miliziani. Il bilancio finale secondo le fonti governative egiziane è di “almeno 100 terroristi uccisi e 17 morti tra i militari, di cui quattro ufficiali. Questi episodi non sono che la punta dell’iceberg di una guerra a bassa intensità che investe l’area del Sinai settentrionale da più di un anno e mezzo. Il vuoto istituzionale determinato dalla caduta di Mubarak ha fatto sì che i numerosi gruppi jihadisti si unissero sotto un’unica formazione, l’Abm (Ansar Bayt al Maqdis) fondata nel 2011 sotto l’impulso del Consiglio della sura dei mujahidin (Msc), una coalizione di gruppi e sottogruppi jihadisti nel Sud di Gaza, caratterizzati da un’ideologia salafita radicale e di orientamento qaedista. Gli obiettivi principali dell’organizzazione erano quelli di minare le relazioni tra Israele ed Egitto, colpendo i gasdotti che collegano i due stati, e le pattuglie di frontiera israeliane. Il Sinai è una regione militarizzata, organizzata in zone d’influenza. Secondo gli accordi di Camp David, il Sinai era diviso in zone in cui l’esercito egiziano poteva dispiegare in modo limitato la sua forza a seconda della vicinanza al confine con Israele. La zona C, quella sul confine israeliano, poteva permettere una limitata presenza di polizia egiziana accompagnata da Multinational Force and Observers, organismo creato ad hoc da Usa, Egitto e Israele. L’intera Zona C è sempre stata caratterizzata da numerosi episodi di violenza commessi dalla polizia egiziana nei confronti della popolazione civile, nel tentativo di scovare potenziali terroristi e trafficanti. Interi villaggi sono stati distrutti e civili massacrati. L’ABM ha potuto così contare sul sostegno della popolazione locale della Zona C, sempre più ostile alle forze governative e ad uno Stato assente, riconoscendo nell’ABM l’unica alternativa alla repressione statale e l’unica difesa di fronte alla punizione collettiva imposta dall’esercito egiziano. L’Abm conta tra le sue fila membri egiziani, provenienti dalle aree beduine del Sinai e dalle aree continentali egiziane del Delta, oltre ad alcuni membri palestinesi aggregatisi dal Msc. In seguito alla deposizione del presidente Morsi, avvenuta il 3 Luglio 2013, le operazioni di repressione nel Sinai da parte dell’esercito egiziano guidato dal nuovo capo di stato, il generale Al Sisi, sono state potenziate[1], portando a numerosi scontri a fuoco con i jihadisti, e ad esecuzioni sommarie di civili sospettati di terrorismo[2]. Proprio in quel periodo Abm è stato molto abile a reclutare direttamente all’interno del tessuto tribale beduino. Ad oggi, nelle zone tra Rafah e Sayh Zwayyd, l’Abm ha ottenuto l’appoggio quasi totale dei beduini. I principali avamposti militari di Abm si trovano attualmente nel Sinai settentrionale, nelle aree beduine della zona C e più in particolare nei villaggi fantasma tra la Rafah egiziana e Sayh Zwayyd. L’organizzazione, tra vertici e fiancheggiatori, conterebbe le tremila unità. Le risorse economiche dell’organizzazione, provengono dai profitti ricavati dai traffici illeciti che avvengono attraverso i tunnel che collegano l’Egitto alla striscia di Gaza, un circuito milionario di traffico di armi, droga, esseri umani e controllo economico del territorio. Dal novembre 2014, l’Abm ha giurato fedeltà (bay’a) ad Abu Bakr al-Baghdadi e, affiliandosi allo Stato Islamico ha preso il nome di Wilayat Sina (Ws), la provincia del Sinai. Il giuramento è stato un successo per lo Stato islamico, che così può allargare il fronte dei combattimenti a più teatri simultanei, e contrastare i raid della coalizione anti-Isis con l’intento di minare dall’interno la stabilità degli stessi Stati mediorientali attraverso l’affiliazione delle cellule jihadiste presenti sul loro territorio. Parallelamente, per il Wilayat Sina la collaborazione con lo Stato Islamico garantisce un supporto logistico e militare esterno rilevante nella sua campagna di contro-insorgenza e di guerriglia nei confronti di Egitto e Israele.[3] L’Abm con la sua propaganda, ha fatto leva sul fallimento dell’islam politico. Con la destituzione dell’ex presidente Muhammad Mursi del luglio 2013 e la repressione nel sangue dei rappresentanti dei Fratelli Musulmani, l’Abm ha avuto più spazio di manovra per attrarre le frange più frustrate della Fratellanza.
L’autoproclamata Provincia del Sinai, ha mostrato importati evoluzioni nel campo politico sociale, agendo da vero e proprio Welfare State per la popolazione del Sinai settentrionale. Fin dagli anni Ottanta, il Nord Sinai è stato sfruttato dall’Egitto per i suoi giacimenti di gas, ma non è mai rientrato nei piani statali di sviluppo economico. Le comunità beduine sono state emarginate per decenni, senza accesso all’acqua potabile e agli ospedali, impossibilitate a possedere legalmente la terra su cui vivono e coltivano, oltre a subire la violenza sproporzionata dello Stato egiziano. La realizzazione di una zona cuscinetto tra Egitto e Gaza, ha portato alla distruzione di 2000 case nella zona di Rafah, lasciando senza tetto e senza indennizzo numerose famiglie. L’Abm, in questo contesto si è sostituito allo stato, risarcendo i cittadini le cui case sono state distrutte dell’esercito. Il Presidente Al-Sisi, a seguito degli attacchi ai check-point, ha annunciato nuove misure anti-terrorismo, attraverso l’imposizione dello stato d’emergenza e di un coprifuoco notturno nel Sinai Settentrionale. Ma nonostante i proclami, le operazioni militari messe in atto fino ad oggi non solo non hanno stabilizzato la penisola, ma hanno addirittura peggiorato la situazione. Una soluzione politica non è stata ancora considerata. La guerra a bassa intensità in zone desertiche e montagnose viene portata avanti con i cadetti di fanteria della leva obbligatoria, terrorizzati e inesperti e con forze militari non specializzate. Una chiara e chirurgica strategia al momento assente nei piani di Al Sisi, metterebbe in dubbio una reale intenzione di risolvere il problema Sinai, dato anche il fatto che esso rappresenta il banco di prova attraverso il quale il Generale si sta mettendo in mostra come “paladino anti-terrorismo” agli occhi dell’Occidente. Nel 2014 infatti il Pentagono ha firmato un accordo per la fornitura di nuovi armamenti all’esercito egiziano, tra cui elicotteri Apache. Gli Stati Uniti insieme ai suoi diretti alleati nella regione (Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) supportano l’Egitto nei suoi rapporti di pace con Israele e nel suo ruolo di paese pacificatore e moderatore dell’intera regione. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti considerano il corso della politica interna del paese, portatrice di instabilità e di fallimento delle istituzioni, nel lungo periodo.[4] L’approccio repressivo portato avanti dal governo egiziano, non aiuta di certo a fermare le continue adesioni a gruppi estremisti e violenti. Nonostante la pesante situazione interna, il Sinai rimane la carta vincente del Generale, il quale sfrutta al massimo la potenzialità di una “minaccia terroristica” per attrarre alleanze esterne e attuare una repressione interna più dura, facendo del Sinai uno strumento politico contro la Fratellanza, e per perseguitare ogni tipo di opposizione. Nel frattempo però il conflitto in Sinai si starebbe via via spostando verso la Striscia di Gaza, dove i salafiti filo-Is stanno creando molti problemi ad Hamas. Questo potrebbe spingere il presidente Al Sisi ad “invitare” Israele ad agire nella striscia. I due eserciti potrebbero già essere in fase di coordinamento in preparazione di una simile eventualità. Il quadro complessivo che viene fuori da questa narrazione, caratterizzato dell’ascesa dello Stato Islamico in Sinai e dal deterioramento delle condizioni di sicurezza nell’immediato vicinato, suggerirebbe alle autorità egiziane di ripensare le proprie strategie politiche e securitarie. L’Egitto avrebbe la grande opportunità di riacquistate l’influenza perduta nell’area attraverso un cambio di rotta nella strategia di lotta al terrorismo a tutti i livelli (politico, militare e sociale) isolando i veri gruppi di guerriglia dai gruppi di protesta pacifici, ad esempio. Ciò potrebbe assicurargli, da una parte, una diminuzione delle tensioni e una minore presa dei jihadisti nelle fasce marginalizzate della società, dall’altra, una maggiore stabilità data da una percezione diversa della legittimità e del ruolo dello Stato nella regione.     
Danilo Lo Coco



[1] “Operation Sinai” e “Operation Desert Storm”- Luglio 2013
[2] http://rt.com/news/egypt-army-sinai-operation-681/

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